E’ un’ansia vera e propria questa. E’ la prima domanda che ci sentiamo fare e il primo pensiero che i genitori rivolgono al presunto benessere dei propri figli, senza neanche chiedersi se il momento in cui lo pensano coincide con il momento in cui i propri figli hanno l’effettiva necessità di socializzare.
Dei cani si dice che, se non hanno socializzato con altri cuccioli nei primi sei mesi, da adulti diventano aggressivi. Degli uomini se ne dicono tante: che se sono figli unici diventeranno degli egoisti, che se non vanno all’asilo non impareranno a socializzare, che se sono figli di famiglie numerose non sono stati seguiti bene (io mi immagino sempre la mamma dietro a questa pletora di figli con lo “scudiscio personalizzato” e il collare col nome scritto di ognuno) e quindi chissà cosa diventeranno, insomma… da un lato pare – non a me, e non so a voi – che la serenità di un figlio debba necessariamente dipendere da come avrà socializzato nei primi tre anni della sua vita e dall’altro lato però questo – non secondo me, e non so secondo voi – è vero fino a un certo punto. Dipende se è andato all’asilo o meno, se ha dei fratelli oppure no, se è stato troppo tempo con la mamma – oppure troppo poco -, se nelle sveglie notturne è stato lasciato piangere o è stato soccorso, se faceva caldo o freddo, se era un giorno festivo o lavorativo… insomma.
L’ansia della socializzazione è quella malattia dell’era moderna secondo cui bisogna imparare a socializzare da piccoli per poi …rinchiudersi da grandi? Generalmente è qualcosa che preoccupa chi già di per sé ha delle difficoltà a socializzare, indipendentemente dalle premesse. E’ buffo che in una società in cui la maggior parte degli adulti si preoccupa di essere autonoma, di farsi i fatti propri, di rinchiudersi in case sempre più piccole, con angoli cottura sempre più ottusi, ci si faccia carico della socializzazione altrui, prima ancora che dell’averne effettivamente bisogno.
Personalmente, con Samuele ho scoperto che i bambini, almeno fino a 18-20 mesi, quasi tutti, si fanno serenamente e giustamente i fatti loro. Non sanno nulla dei propri genitori, di quello che vedono, di quello che sentono, del fatto che un fiore si può annusare o che con l’acqua ci si bagna. Sono talmente occupati e interessati a scoprire il mondo che li circonda che un altro bambino come loro passa molto spesso inosservato. Ma poi, diciamoci la verità, in quale modo – secondo la nostra adulta aspettativa, totalmente ignara di quello che accade in una mente così piccola e pura – questi bambini dovrebbero impositivamente socializzare? Scambiandosi delle palline? Guardandosi negli occhi? Tenendosi per mano anche se non si conoscono? Stando tutti insieme nella stessa stanza e facendo ognuno quello che vuole? Come? Questa ad esempio è una risposta che ancora nessuno mi ha dato. Tutti ritengono che debbano genericamente socializzare, già da quando hanno 3 mesi, ma nessuno mi sa dire con certezza perché, come, dove, quando o con chi…
C’è un tempo per ogni cosa e noi crediamo che ogni bambino abbia il suo tempo, in tutto. In 36 mesi, in rapporto a tutta la vita, un bambino mediamente impara: a vedere, ad ascoltare, a usare le mani, a nutrirsi, a camminare, a stare seduto da solo, a parlare, a correre, ad arrampicarsi, a pedalare, a trovare il proprio baricentro, a fare le scale senza essere aiutato, a lavarsi i denti e le mani, a passare dal pannolino al vasino, a dormire serenamente, a ridere con consapevolezza e non più solo grazie ai neuroni specchio, a fare forse a meno del passeggino, a tenere in mano un pennello, a riconoscere le cose nella realtà, a chiamare tutti per nome, ad avere cognizione di sé…
L’elenco è ancora lungo e noi di cosa abbiamo fretta? Di farli socializzare, magari nella speranza che quanto prima imparano tanto meno vivranno i nostri stessi fallimenti relazionali (altra grande illusione e paura, umanamente compresibile…).
Lasciamoli vivere, lasciamoli crescere, lasciamo che si incontrino davvero quando ne sentiranno un bisogno vero e sincero, secondo le loro categorie e non secondo le nostre. Anche loro, come noi, invecchieranno mentre imparano a capire che il loro prossimo non è un oggetto di consumo messo lì per socializzare a tutti i costi, ma qualcuno che ha qualcosa da dire prima che da dare, qualcosa da amare prima che da odiare, qualcosa da vivere prima che da consumare.
L’ansia della socializzazione deriva dal fatto che noi abbiamo tanta paura di restare soli quanta non ne vorremmo giustamente mai per i nostri figli. Ma questo non si chiama educare alla socialità (per l’esattezza, anche prendersi a botte può voler dire “socializzare”), bensì proiettare sui figli le ansie degli adulti. Che lo facciano i genitori, i nonni o la scuola, poco cambia. E’ sbagliato in ogni caso.
Ecclesiaste 3
1 Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9 Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?