Una delle sfide più appassionanti dell’educazione parentale, per noi genitori, credo sia quella di capire come aiutare i nostri figli a porre le basi più adeguate, rispetto alla loro personalità e alle loro attitudini, in un mondo super accelerato, sempre più volatile, veloce, contaminato, percosso, sollecitato e così via. Tutte cose che, in genere, notano tutti quei genitori che hanno smesso di guardare a loro stessi (“si sono dimenticati chi sono” direbbe la nonna di Vaiana, che sa di essere – agli occhi degli altri – la matta del villaggio), adattandosi ad essere sempre più conformi a come l’occhio di Sauron li vorrebbe vedere. E’ una sfida quotidiana e perenne questa. Lo è perché, siccome abbiamo capito – solo dopo anni di fallimenti educativi, pedagogici, pediatrici e psicologici – che la negazione e le punizioni in sé non danno altro frutto che l’odio, il desiderio di trasgressione, la necessità di evadere e liberarsi, farlo senza dover negare ogni cosa che ci sembri pericolosa o sospetta ai nostri figli è una missione tanto attuale quanto apparentemente impossibile. Noi siamo di quelli che hanno e utilizzano tutti gli strumenti che il mondo ci mette a disposizione, dalla raspa al tablet, eppure fatichiamo. Faticare non significa mollare per sfinimento, ma scalare le montagne, fare discernimento, educarsi. Se mi serve il computer, io mi alzo alle 6.45 tutte le mattine, da qualche settimana, per due motivi: 1) il silenzio in casa impera per altre due ore e mezza circa; 2) mio figlio non mi vede due ore davanti a un computer (e pensare che fino a 5-6 anni fa, lavorandoci, ce ne passavo anche 15, 16, 17… e la ritenevo anche una cosa sanissima, oltre che opportuna e, nel mio caso, inevitabile).
La battaglia educativa più dura dei nostri tempi, e anche la più sottovalutata, soprattutto per chi sceglierà di praticare educazione parentale, e ancor più soprattutto per chi resterà genitore di figlio unico, e ancor più soprattutto per chi si isolerà dal resto del mondo andando a vivere in qualche baita con la connessione 5G (nell’illusione di salvarsi dall’inquinamento), non sarà quella contro le sigarette o la televisione, ma quella “contro” il digitale. Che, come dico sempre, di per sé non è un male.
Da sempre, i cristiani sanno che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Mentre a scuola continuiamo a fare i cerchietti con le matite o i lavoretti di Pasqua (senza neanche provare a spiegare ai bambini cosa sia la Pasqua e perché la si festeggia), internet diventa un bolide ai massimi livelli di intuizione anche per bimbi piccolissimi che sempre prima lo avvicinano per mille motivi, e sempre meno sono monitorati, preparati, pronti. Lasciamo stare il livello dei genitori, assolutamente inadeguato nella maggior parte dei casi a coprire la velocità di autoapprendimento dei loro figli su certi strumenti (sempre più concepiti per loro e non per noi, ovviamente).
Siamo passati dal tempo in cui il digitale era una grande risorsa al tempo in cui noi siamo diventati la grande risorsa del digitale. Siamo schiavi di una serie di automatismi che, senza rendercene conto, ci stanno scippando abilità, senso critico, motricità, vista, udito, capacità di autocorrezione (oltre che di comprendere l’errore), relazioni vere, senso dell’orientamento, contatto umano, gusto, attenzione, tutto…! Non siamo più capaci di cucinare un piatto di pasta al sugo senza leggere una ricetta su “Giallo Zafferano”. Se non sappiamo leggere non importa: ce lo legge Google. L’alternativa analogica alla cucina digitale sono i sughi pronti o le zuppe nei cartoni, roba da matti! La motivazione che giustificherebbe tutto questo è: risparmiare tempo, anche a costo di spendere più denaro. Il tempo è diventato più prezioso del denaro? Perché? E in cosa si trasforma questo grande desiderio di avere più tempo? Per fare cosa? Per trascorrerlo come?
Attenti a qualche domanda.
Cosa sono diventati tutti gli strumenti nati per motivi di “accessibilità”? Per rendere il digitale un luogo più ospitale e fruibile, giustamente, ed ecco “la pentola”, anche per le persone diversamente abili? Di questo parliamo: mancano “i coperchi”.
Le mail si dettano con il microfono di tutti gli smartphone, da Whatsapp o Messenger si mandano audio messaggi, con Audible si sentono i libri su qualunque device: nessuna penna, nessun pezzo di carta, nessuna competenza: basta emettere e/o ricevere suoni. Tra poco non serviranno più neanche la grammatica o la coniugazione dei verbi perché i correttori automatici diverranno sempre più precisi, fino a toglierci la parola. Noi che abbiamo fatto un sacco di cerchietti a scuola, fatichiamo a tenere una penna in mano, e dovremmo essere quelli che hanno studiato. Siamo circondati da evidenti risultati dei nostri grandi apprendimenti infatti, no? Tantissimi bambini che vedo intorno a me non la impugnano neanche una penna, un colore, una matita: colorano “un disegno” già fatto strisciando il dito a casaccio qua e là su uno schermo. A volte lo fa anche il mio, a volte. Mandano video messaggi, registrano quello che una volta si poteva solo scrivere e ascoltano quello che una volta si poteva solo leggere.
Improvvisamente, siamo tutti diversamente abili. Come Sauron ci voleva. Basta guardarsi attorno in metro, sull’autobus, a spasso. Parliamo tutti da soli: un mondo di imbecilli che sta crescendo una nuova generazione di analfabeti. Perché solo degli imbecilli sarebbero disposti a perdere la parola dopo aver impiegato qualche secolo a trovare un codice comune per parlarsi. Almeno parlarsi, perché capirsi, boh, chissà se sarà mai veramente possibile.
Riempite le vostre case di raspe, di chiodi e di martelli; di metri da sarto, di bottoni, di aghi e fili colorati; di pennelli, di tempere, di colori a cera, pennarelli, gomme, forbici e temperini; di cose da fare e da imparare. Il mio laboratorio – in neanche due metri quadrati di casa – è un’officina di ricerca. Usiamo continuamente tutto? No, ma abbiamo una scelta e un livello di qualità adeguato a tutte le attività manuali che, con un minimo di fantasia, possiamo desiderare di fare. Ieri, mentre io costruivo una pista per le macchinine in carta e cartone, il cui tutorial troverete a breve su questo blog, Samuele ha giocato per quasi un’ora da solo con un tubo trasparente che ha trovato, nel quale ha messo di sua iniziativa delle palline colorate.
Riscoprite la pedagogia del mattarello. Fate gli gnocchi e datevi delle regole, non talebane ma certamente orientative e quotidiane sull’uso sensato dei mezzi digitali, secondo almeno tre criteri:
1) il tempo: non più di un’ora, un’ora e mezza al giorno;
2) lo scopo: condivisione, valorizzazione e selezione;
3) il luogo: niente telefoni a tavola durante i pasti.
Quando i figli dormono, fate quello che volete, ma non dimenticate che siamo tutti sulla stessa strada: improvvisamente siamo tutti diversamente abili. E, se non stiamo attenti, aiuteremo questa generazione a diventare analfabeta.
Il mio consiglio?
Quando i figli dormono, fate voi un bel disegno per loro. Non ci vuole molto. Disegnate la vostra famiglia come lo farebbe un bambino, dando il meglio di voi stessi. Fate una cosa inutile (solo in apparenza). Sarà un successo. Perché dove la parola muore, l’arte rinasce e vive.
Perché l’hai chiamata pedagogia del mattarello?
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Perché nessuno fa più la pasta fatta in casa, che invece è una grande risorsa educativa, umana e istruttiva. Bisogna tornare a toccare le cose, a maneggiarle, a tirare fuori la pasta dalla farina, come gli scultori, spesso analfabeti, tirano fuori le statue dal marmo.
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Ottimo paragone! 🙂 Colgo l’occasione per consigliarti questo splendido film: https://wwayne.wordpress.com/2019/01/22/un-film-da-applausi/. L’hai già visto?
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Non lo abbiamo visto. Lo danno su Netflix per caso?
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Mi sa che è troppo recente. Magari tra qualche mese. Grazie per la risposta! 🙂
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Figurati! Grazie a te!
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