Conosciamo di persona poche famiglie che vicino a noi abbiano fatto la scelta dell’educazione parentale. Siamo in contatto con un sacco di gente, un po’ ovunque, ma la questione “fare rete”, in una città come Roma, dove tutti cercano tutto sotto casa, non è affatto semplice da gestire, da affrontare con saggezza.
Tante volte ci siamo chiesti come condividere la nostra esperienza con altri (più di quei pochi che incontriamo occasionalmente), anche in termini di conoscenze e di opportunità. Tante volte ci siamo chiesti chi, quando e come, sarebbe stato disposto a fare lo stesso con noi. Sono tanti gli argomenti che girano attorno al “fare rete”: la socializzazione, l’aiuto reciproco, lo scambio di competenze e di abilità, l’arricchimento di interessi e di relazioni utili, l’appoggio mentale e fisico, l’aiuto e quant’altro. Tante volte abbiamo capito che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e che uno dei motivi per i quali si sceglie l’educazione parentale è proprio quello di riuscire a trovare una sintonia e un equilibro familiare nella dinamica comunitaria che meglio risponde alla propria realtà quotidiana: genitori che viaggiano parecchio durante l’anno, come noi; famiglie che vivono due anni qua e due là; figli con bisogni speciali; prevalenza di interessi e attitudini umanistiche; cose così, insomma.
Tante volte ci siamo posti la questione di strutturare o destrutturare, di normare o di sciogliere la nostra vita, di avere o meno un’agenda da seguire, un piano da rispettare, delle caselle da riempire. Quante attività? Quali? Quante volte? Come e quando creare delle occasioni di condivisione? Perché fare certe libere scelte e non altre, altrettanto libere? Insomma, inutile dire che le domande in casa nostra non mancano mai, mentre le risposte quasi sempre scarseggiano. Però, poi arrivano. Che lavativi.
Abbiamo letto un sacco di libri sulla scelta che stiamo facendo (esperienze dirette, casi di studio, sperimentazioni, realtà esistenti). Alla fine, ne ho scritto uno anch’io che spero di riuscire a pubblicare prima di questo Natale 2018. Eppure, in nessuno di questi libri abbiamo trovato scritto cosa dovevamo fare e come dovevamo farlo. La speranza più diffusa infatti tra chi fa questa scelta educativa oggi è proprio quella di trovare tante spiegazioni, tanti esempi, tanti modi pronti, tante istruzioni. Il tentativo è sempre quello di incanalarsi in qualcosa che qualcun altro ha già fatto prima e che magari ha anche funzionato. Il desiderio recondito, ma neanche troppo, è sempre quello di non sentirsi i primi, gli unici, i soli, quelli un po’ strani che hanno preso una via dubbia senza tutele né garanzie, senza sicurezze.
Più ci penso e più sono convinta che ognuno di noi è quello che è, fa quello che fa, vive nel modo in cui vive e mai nella vita, sebbene tutti ne abbiamo cercate, ha ricevuto spiegazioni, certezze, esempi o istruzioni. Semplicemente perché l’essere umano non è uno “standard di mercato” e le variabili che ne rendono unica l’essenza e la vita sono talmente tali e tante da non garantire niente a nessuno, mai. Noi vorremmo avere un diario, ma la realtà è che non ce l’abbiamo e anche quando proviamo ad averlo le cose vanno diversamente da come le avevamo immaginate e pianificate noi. Mi riferisco alle “grandi stime” chiaramente, agli orizzonti, ai piani a lungo termine, e non ai pallini che mettiamo nelle agende per ricordarci di tre o quattro appuntamenti fissi presi per i nostri figli tra il rugby, il catechismo, la musica e il pallone.
Cosa faremo quest’anno per aiutarlo a diventare grande? Per riempire quelli che per noi sono dei vuoti, mentre per lui sono grandi opportunità di apprendimento? Come faremo ad avere un planning degno di tale nome, suddiviso in fogli, cartelle, attività varie, impegni. Quanto dev’essere folta e intensa la vita di un bimbo di tre anni che non va a scuola?
Poi, all’improvviso, la luce. Non saremo noi a “pianificare” la sua vita, ma lui a diventare grande. Perché l’importante non è il viaggio, ma la meta. Nella nostra vita abbiamo preso tanti appuntamenti, rispettato tante regole, schedulato anche il numero di rotoli di carta igienica da consumare in bagno tutti i mesi, eppure non siamo dove siamo per questi motivi, ma perché a un certo punto abbiamo capito dove stavamo andando e dove volevamo arrivare esattamente. A un certo punto, di certo non a tre anni. A quel certo punto in cui ci siamo trovati noi, senza “l’aiuto di nessuno”. A quel certo punto diverso per ognuno, unico quanto noi.
La nostra vita ha due soli appuntamenti importanti. L’ultimo, che chiude l’agenda dell’esistenza, e il certo punto, quello in cui si centra il bersaglio della vita. Per tutti, arrivano entrambi senza fretta e senza affanni, quando è ora. A un certo punto. Tutto qui.
Ciao Giorgia,
grazie come sempre per le tue riflessioni, molto importanti.
Mi sento di dirti che dalle mie parti a Bergamo abbiamo un modesto gruppo di almeno 50 famiglie che sono distribuite nella provincia e fanno o simpatizzano per l’homeschooling.
Abbiamo iniziato in pochi (6 famiglie circa) e man mano, anno dopo anno, il gruppo è cresciuto. La cosa vincente secondo me è stata quella di dare uno strumento per comunicare (mailing list nel nostro caso) e dare la libertà di proporre e di partecipare. Così il gruppo è cresciuto ed è maturato.
Ci tenevo a darti la mia esperienza, che magri ti può fornire uno spunto.
Per il resto hai sempre dei punti di vista molto interessanti.
Pensandoci un po’, non può essere anche che non è la meta ad essere importante, bensì il viaggio?
Visto che è durante il viaggio che si fanno tutte le cose necessarie per raggiungere la meta….
=)
Buona giornata!
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Ciao Phoebe! Secondo noi no. La meta è fondamentale. Il viaggio ha senso solo se sappiamo dove siamo diretti. Diversamente, possiamo viaggiare tutta la vita senza arrivare mai da nessuna parte. A mio parere, le cose necessarie per raggiungere la meta si fanno anche da fermi, paradossalmente, proprio perché dipende dalla meta, ma bisogna sapere dove si sta andando o dove si vuole arrivare, altrimenti si viaggia e basta.
Sul resto, sappiamo bene che al nord c’è una diversa “intensità” per quanto riguarda l’educazione parentale (non so quanto parliamo di aggregazione fisica o digitale), ma Roma è una città a parte, come per molte altre cose. Conosciamo famiglie in Umbria che, proprio per le piccole località in cui vivono o per la semplificazione logistica negli spostamenti, riescono a vedersi anche tre, quattro volte a settimana. Qui è oggettivamente un altro mondo per mille motivi e spesso la scelta della scuola è tra le peggiori proprio perché ci si limita a scegliere quella sotto casa. Poi noi, siamo del parere che vedersi, toccarsi, sentirsi e frequentarsi sia fondamentale. I gruppi virtuali o le newsletter sì, ok, ma “i ciambelloni condivisi a merenda” tutti insieme, quanto più spesso possibile, sono un’altra cosa…
Grazie a te!
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