“Mamma mia! E come fate?! Noi li abbiamo mandati all’asilo. E’ impossibile tenerseli a tempo pieno tutto il giorno. Ti esauriscono. Poveri voi!” E come provare a dire il contrario? Perché è vero. E’ vero che un bambino di tre anni, a fine giornata, ti esaurisce. Diffidare fortemente di chi sostiene il contrario. Figurarsi due, tre, quattro o più, magari di età diverse, con caratteri unici, bisogni speciali e via dicendo. I miei testimoni di nozze ne hanno otto di figli, ormai grandi, però sono sopravvissuti. E hanno pure una bella cera, ancora.
Quando mi piglia il minuto dello sconforto con Samuele che non vuole dormire o che si sveglia quattro volte in piena notte, a quasi tre anni ormai, io penso a loro e mi ripeto che ce la posso fare, ce la posso fare, ce la posso fare… finché alla fine si riaddormenta. E poi si risveglia. E poi si riaddormenta. E poi si risveglia. E poi si riaddormenta. E poi si risveglia. E poi si riaddormenta. E poi però, ormai… è giorno. Tu ti devi alzare lo stesso e non avrai più mezzo secondo per sederti un attimo a fare un respiro profondo. Alcune volte ti tornano in mente quei periodi della tua vita in cui ti potevi permettere di non fare niente per delle ore o di passare un tempo assurdo sotto la doccia anche quando non ti lavavi i capelli… e ripensi a quel “Poveri voi!”
E’ vero, è proprio così, è impossibile tenerseli a tempo pieno tutto il giorno. E’ un’impresa eroica, una strada per il paradiso, la via per l’espiazione di tanti peccati, speriamo noi. Il bello è che quando ti dicono cose così sai benissimo che non saresti credibile se rispondessi che non è vero e che, in realtà, tu non desideri altro che passare ogni decilitro in goccia del tuo tempo in questo modo, rispondendo per otto volte di seguito alla stessa domanda fatta in meno di un minuto per lo stesso numero di volte. Infatti, sorridi ma, fondamentalmente taci perché ci sono momenti in cui daresti via anche la casa di proprietà per avere un solo breve, sfigato, usato, pessimo attimo di silenzio. Ammicchi e fai quella faccia da mela cotogna che ti viene ogni volta che ripensi a quando pesavi dieci chili di meno perché trovavi sempre un’oretta al giorno per fare un po’ di jogging, o a quando tua madre ti dice che dovresti mettere una gonna ogni tanto senza sapere che tu passi la maggior parte della tua giornata a imitare una stazione di car wash stando in terra a quattro zampe, ovunque ti trovi, perché tuo figlio si immedesima in un auto che procede lentamente tra le spazzole di un lavaggio automatico in centro città. Che saresti tu. E ti chiede di fare anche i rumori.
Ci esauriscono i figli, è vero, poveri noi. E soprattutto sappiamo sempre che il peggio deve ancora arrivare. Che ci esauriranno sempre di più, magari in modo diversi, che ci faranno preoccupare, che ci sfiniranno, che ci affronteranno, che ci consumeranno di dolore, che resteranno per sempre a “nostro carico”, che ci istupidiranno, che ci chiederanno tempo, forze, risorse ed energie, che se ne andranno presto e che di tante cose, perfino, si dimenticheranno. E anche noi.
E’ così. E’ proprio così, infatti scegliere di crescere e istruire i propri figli a tempo pieno non significa rendersi la vita più semplice, preferire una strada in discesa, avere dei privilegi, essere egoisti, ricchi o fortunati, ma piuttosto significa impoverirsi di tante cose piccole per imparare a riconoscere quelle grandi, le vere ricchezze. Significa rinunciare a tanto del nostro tempo, se non addirittura TUTTO, per regalarlo a qualcun altro; significa rimandare tante cose che non avranno mai più un’altra data sul nostro calendario; significa chiudere ponti, tagliare rami secchi, imparare a vivere, scegliersi gli amici, gli investimenti da fare, il lavoro e le priorità; significa stare attenti sempre a parlare bene, a non parcheggiare davanti al passaggio per gli invalidi, a non mettere mai in bocca le mani sporche, a non infilarsi mai le dita nel naso, neppure in ascensore, perché ai figli non sfugge niente di quello che diciamo e niente di quello che facciamo; significa diventare prima grandi, poi adulti e poi vecchi; significa stancarsi, dimenticarsi di se stessi, annullarsi, seppellire nelle sabbie mobili i propri desideri e i propri affanni. Non mandare un figlio all’asilo significa perdersi con lui, in ogni momento della sua vita, e della nostra, in quelle che saranno le sue domande, le sue scoperte, le sue battaglie, le sue sconfitte, le sue vittorie e le sue scelte. Significa scoprire, minuto per minuto, cosa gli piace, cosa lo interessa, per cosa è portato, cosa lo entusiasma, cosa lo avvilisce, lo sconsola, lo scoraggia o lo rende più forte. Significa imparare a conoscerlo, scoprire chi è.
Crescere un figlio a tempo pieno significa distaccarsi da se stessi, allontanarsi dai propri attaccamenti, scoprirsi per come si è, guardarsi struccati, imparare ad amare e ad essere amati, piuttosto che ad adorare e a essere adorati. Se qualcosa di egoistico c’è, è solo questo. Crescere un figlio a tempo pieno significa avere un’occasione speciale di eternità in ogni momento della propria giornata e della sua: altro che la mattina libera!
Come mai non va all’asilo? Perché noi non andiamo in cerca di un asilo, ma della nostra vera casa. Ovunque essa sia. E’ così che ci sentiamo sempre a casa nostra, ovunque siamo.
Sap 7,7-11
Al confronto della sapienza stimai un nulla la ricchezza.
Dal libro della Sapienza
Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
* * *
In Vocabolario Treccani (clicca qui)
aṡilo s. m. [dal lat. asylum, gr. ἄσυλον (ἱερόν), propr. «(tempio) dove non c’è diritto di cattura (σύλη)»]. – 1. a. Immunità concessa anticamente a chi (schiavo fuggitivo, delinquente, prigioniero di guerra) si rifugiava in luogo sacro (edificio, recinto, bosco o monte consacrato alla divinità) o presso una cosa sacra (altare, statua degli dei, ecc.); costituiva un diritto (diritto d’a.) riconosciuto non solo presso i popoli primitivi, ma anche presso quelli più progrediti, e in seguito accettato anche dalla Chiesa cristiana a favore di coloro che, indiziati per qualche reato o già colpiti da condanna, si fossero rifugiati in una chiesa (a. ecclesiastico, tuttora vigente nel diritto canonico, ma abolito dalle legislazioni civili del sec. 19°). Attualmente, il diritto di asilo si configura come garanzia di inviolabilità accordata a stranieri rifugiati, per motivi politici, in territorio estero o in sedi che godono della extraterritorialità, come ambasciate, ecc. (a. politico). b. Per estens., rifugio, ricovero: dare, cercare, offrire, trovare a. (in un luogo, o presso qualcuno). 2. Edificio destinato a ospitare, temporaneamente o permanentemente, speciali categorie di persone bisognose di ricovero, sorveglianza, o assistenza: a. notturno, per il pernottamento dei senza tetto; a. di mendicità, per l’ospitalità completa, soprattutto ai vecchi; a. per minorenni, per l’assistenza e la tutela della gioventù priva di mezzi. 3. a. A. nido, riservato ai bambini d’età non superiore ai tre anni (v. nido, n. 3). A. infantile o a. d’infanzia, nome che, fino a un passato abbastanza recente, ha indicato la scuola dell’infanzia (v. infanzia, n. 1. b), ancora usato nel linguaggio fam. (più spesso, semplicem. asilo): questo è il grembiulino dell’asilo? b. Asilo–scuola: istituzione medico-pedagogica esistente dalla fine dell’Ottocento al Novecento, con il compito di adattare alla vita sociale le persone con problemi psichici. 4. Luogo che gli uccelli, e la selvaggina in genere, eleggono a dimora preferita e a rifugio.
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